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La Consulta boccia l'art. 459, comma 1, c.p.p.: ridotti i poteri del querelante
La Consulta boccia l'art. 459, comma 1, c.p.p.: il querelante non potra' piu' opporsi alla definizione del procedimento con decreto penale di condanna. Nota a Corte Costituzionale Sentenza n. 23/2015

lunedì 9 marzo 2015

È stata pubblicata il 27 febbraio scorso la pronuncia con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 459, comma 1, c.p.p., nella formulazione introdotta dalla c.d. “Legge Carotti” – L. n. 479/1999 – nella “parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l’emissione del decreto penale di condanna”. Quello che sostanzialmente era quasi una prassi o un modello prestampato degli avvocati nelle querele (ove si trattasse di reati sottoposti a tale condizione di procedibilità), è stato giudicato dalla Corte in contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione. I Giudici delle leggi in sostanza non hanno individuato una ragione giustificatrice della potestà di interdizione riconosciuta al querelante e introdotta con la novella del 1999. Le motivazioni a sostegno della decisione della Consulta sono sostanzialmente cinque. 1) La previsione normativa distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per quanto concerne i reati perseguibili d’ufficio, in violazione dell’art. 3 Cost. Come si argomenta in sentenza, la ratio della riforma non è mai stata convincente e la modifica è stata oggetto di aspre critiche. Nella versione originaria, infatti, il procedimento per decreto era riservato ai soli reati perseguibili d’ufficio, in ragione della maggiore complessità degli accertamenti richiesti per i reati a procedibilità condizionata, che mal si conciliava con la snellezza e la celerità del rito monitorio. Il legislatore della riforma, tuttavia, nel disciplinare istituti in qualche misura simili, come l’opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto innanzi al Giudice di Pace o per l’opposizione all’archiviazione, ha riservato tale facoltà solo alla persona offesa e non al querelante. In questi casi, inoltre, l’opposizione del querelante (recte della persona offesa) si rivolge ad un provvedimento giurisdizionale che non soddisfa le pretese dell’opponente, diversamente da quanto avviene nel caso di emissione del decreto penale di condanna, dove il querelante vede comunque realizzata la sua volontà di punizione dell’imputato. 2) La disposizione non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante. Già con le sentenze n. 443 del 1970, n. 171 del 1982 e n. 166 del 1975, trasfuse nell’ordinanza n. 124 del 1999, la Consulta aveva chiarito che l’impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa, giacché resta impregiudicata la facoltà di agire per il risarcimento del danno in sede civile. Pertanto “ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata come una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale”. La persona offesa, inoltre, e quindi anche il querelante, ai sensi dell’art. 90 c.p.p., ha diritto di partecipare al processo, anche a prescindere dalla sua eventuale costituzione di parte civile, potendo, in ogni stato e grado del procedimento, presentare memorie e indicare elementi di prova, esercitando una sorta di controllo e adesione all’attività del Pubblico Ministero. Oltre a ciò, ribadisce la Corte, nel caso di decreto penale di condanna, la rappresentazione dei fatti esposta nella querela ha effettivamente trovato riscontro nell’attività di indagine dell’accusa e il querelante ha visto soddisfatte le sue pretese punitive. Non vi è, pertanto, in capo a quest’ultimo, alcun interesse meritevole di tutela che giustifichi la facoltà in questione. 3 e 4) Reca un significativo vulnus all’esigenza di rapida definizione del processo e si pone in contrasto con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali. La possibilità di opposizione del querelante determina un significativo allungamento dei tempi del processo, ostacolando la realizzazione dell’effetto deflattivo, che costituisce la ratio informatrice della riforma del codice di procedura penale. Il principio della ragionevole durata del processo, seppure contemperata con il rispetto delle altre garanzie costituzionali, trova esplicazione anche eventualmente tramite la compressione di tali garanzie, solo però in presenza di scelte legislative dotate di una valida ragione giustificatrice, ratio che nel caso di specie secondo la Corte è del tutto assente. Tale principio è particolarmente caro ai Giudici costituzionali che lo avevano già espresso nella sentenza n. 1 del 2014 sulla legge elettorale ove “si tratta di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi”. L’art. 459 c.p.p., a mente della Consulta, non supera questo “test di proporzionalità”. 5) La normativa, infine, è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di un’analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante applicazione della pena su richiesta delle parti. Nel caso del patteggiamento, infatti, qualora l’imputato avanzi richiesta di applicazione della pena e ottenga il consenso del Pubblico Ministero, al querelante, anche se costituito parte civile, non resta altra scelta e non ha alcun potere di interdizione del rito, dovendo trovare esclusivamente in sede civile il luogo della propria tutela risarcitoria. Di conseguenza, la divergenza della disciplina dei due riti alternativi non trova una ragionevole giustificazione nell’interesse alla costituzione di parte civile del querelante. Infatti, se è vero che il procedimento per decreto e l’applicazione della pena su richiesta delle parti non sono del tutto assimilabili, tale diversità non influisce sul canone di ragionevolezza della norma, perché “il principio di cui all’art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell’identità delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe”, come nel caso in esame. Da ultimo occorre considerare la possibilità che, a seguito di opposizione del querelante, non venga emesso il decreto penale di condanna, ma il procedimento sfoci proprio nel rito di cui all’art. 444 c.p.p., con la conseguenza che viene ugualmente negata la possibilità di trovare nel processo penale la sede per far valere le pretese civilistiche.

Avv. Francesca Fioretti

Fonte: www.professionegiustizia.it