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Sezione di Barletta

 
   
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Bancarotta e fallimento del piccolo imprenditore
venerdì 16 maggio 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli

Depositate le motivazioni della sentenza pronunciata a Sezioni unite dalla Corte di Cassazione Penale.

Nessuna depenalizzazione sulla bancarotta. Nella sentenza delle Sezioni unite penali n. 19601, con le motivazioni anticipate in nota provvisoria del 28febbraio, affrontato un delicato quesito: la modifica dell’articolo 1 della legge fallimentare, per effetto della riforma sui presupposti di fallibilità del piccolo imprenditore, può dar luogo all’applicazione dell’articolo 2, comma 4 del Codice penale? Con la conseguenza di escludere il reato di bancarotta fraudolenta commesso da soggetto che, sulla base della nuova disciplina fallimentare, non sarebbe attualmente assoggettabile a fallimento. Sul punto, all’interno della quinta sezione della Suprema Corte si erano formati due contrapposti orientamenti: in una prima pronuncia del 20 marzo, l’irrilevanza, sul terreno penalistico, della modifica dell’articolo 1 della legge fallimentare viene motivata con il richiamo alla disciplina transitoria, che lascia intatti gli effetti delle procedure fallimentari pendenti al momento dell’entrata in vigore dello ius novum. All’opposto, secondo la sentenza del i8 ottobre, il nuovo articolo il legge fallimentare, che riduce l’area di fallibilità del piccolo imprenditore incidendo su un elemento costitutivo del reato di bancarotta, e cioè sulla dichiarazione di fallimento, darebbe luogo ad un fenomeno di vera e propria successione mediata di norme penali. Per risolvere questo nodo interpretativo la Cassazione, ritiene necessario chiarire quale rapporto intercorre tra la dichiarazione di fallimento ed i reati di bancarotta, chiedendosi se il giudice penale debba ritenersi vincolato alla sentenza dichiarativa di fallimento; in tal caso nel processo per reati di bancarotta sarebbe precluso qualsiasi sindacato sui presupposti fattuali e giuridici dello status di«imprenditore fallito». Oppure se, seguendo un diverso orientamento, il giudice penale possa dirsi “libero” di rivalutare tali presupposti, non dovendosi riconoscere efficacia di giudicato alla sentenza dichiarativa di fallimento, ancorché irrevocabile. Con quest’ultima conclusione si confronta la pronuncia in commento, criticando un recente orientamento della stessa Suprema Corte, sul difetto di efficacia della dichiarazione di fallimento sul processo penale, in ragione della disciplina processuale delle questioni pregiudiziali contenuta negli articoli 2 e 3 del codice di procedura penale. La Suprema Corte,per respingere tale assunto, muove da una diversa premessa sulla natura della dichiarazione di fallimento nella struttura dei reati di bancarotta: la sentenza dichiarativa di fallimento opera «nella sua natura di provvedimento giurisdizionale e non per i fatti in esso accertati». Da ciò deriva, che la sentenza dichiarativa non è suscettibile di un sindacato da parte del giudice penale, vincolando quest’ultimo, come elemento della fattispecie criminosa e non quale decisione di una questione pregiudiziale. Insomma, partendo dal presupposto che la dichiarazione di fallimento è assunta come dato processuale nella economia delle fattispecie di bancarotta, le Sezioni unite respingono la tesi secondo cui il giudice penale sarebbe chiamato ad accertare autonomamente lo status di imprenditore, a prescindere dalla sua fallibilità. La sentenza ne trae una ulteriore conseguenza: lo status di imprenditore fallito non costituisce una questione pregiudiziale,e perciò non ricade nel fuoco di applicazione degli articoli 2 e 3 del Codice di procedura penale, che, astrattamente, consentirebbero una rivalutazione dei presupposti per la fallibilità dell’imprenditore da parte del giudice penale. Per tale ragione l’ articolo 1 della legge fallimentare non costituisce norma extrapenale integrativa del precetto penale, in quanto non incide su un dato strutturale dei reati di bancarotta, ma soltanto su una condizione di fatto per la dichiarazione dì fallimento.
 
Articolo di Nicola Pisani - Docente di Diritto penale Università di Teramo
tratto da: Il Sole 24 Ore