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Sezione di Barletta

 
   
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Cassazione Penale, sez. IV, sentenza 5 giugno 2008, n.22643
mercoledì 18 giugno 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli

Allo spaccio di cannabis potrebbe essere concessa l’attenuante del fatto di lieve entità, a condizione però che non costituiscano ostacolo gli altri parametri introdotti dal Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1999 alla luce delle ultime modifiche della legge n. 49 del 2006).

Cassazione – Sezione quarta – sentenza - 5 giugno 2008, n. 22643 Presidente Romis – Relatore Piccialli Pm De Sandro – conforme - Ricorrente F.

Fatto e diritto

F. Vincenzo ricorre per cassazione avverso la sentenza di cui in epigrafe con la quale la Corte di appello di Torino, confermando quella di primo grado emessa dal Tribunale in composizione monocratica di Torino, lo ha condannato per il reato di detenzione illecita "al fine evidente di messa in vendita" di un quantitativo di hashish, pari a circa 100 grammi lordi (fatto avvenuto in data 11.4.2006).

Il giudice di appello ha articolato la prova della "detenzione" della sostanza stupefacente sul rilievo che il prevenuto, nel corso di una perquisizione, era stato trovato in possesso della chiave che apriva il lucchetto di chiusura di un balcone di pertinenza della sua abitazione. La prova della "destinazione al mercato della droga" è stata invece basata dal giudice di appello, integrando sul punto gli argomenti del giudice di primo grado, su una serie di elementi ritenuti convergentemente dimostrativi di tale destinazione: il quantitativo della droga, netto [la Corte, sul punto, ha effettuato una perizia tossicologica, dalla quale è emerso che il quantitativo di principio attivo era di cinque volte superiore alla soglia della QMD stabilita nel decreto del Ministero della salute dell'11 aprile 2006; decreto che il giudicante ha ritenuto di poter utilizzare anche se emanato solo in data successiva al fatto sub iudice] e lordo [quantitativo definito "significativo"]; l'assenza di un reddito che potesse giustificare un acquisto per uso esclusivamente personale [sul punto, la Corte ha ritenuto non dimostrato e comunque non rilevante il reddito della convivente, sul rilievo che comunque si sarebbe trattato di reddito modesto e non conciliabile con la tesi difensiva dell'acquisto per svago personale]; l'occultamento della droga in luogo sicuro, certificante "che l'acquisto era volto a successive cessioni"; le stesse dichiarazioni rese dal prevenuto evocanti l'intenzione del medesimo di cedere la droga ad amici ovvero di consumarla insieme ad essi [intenzione, quindi, diversa ed ulteriore rispetto all'uso esclusivamente personale].

La Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente sulla nuova normativa degli stupefacenti, laddove è stato parificato il trattamento sanzionatorio delle ex droghe leggere a quello delle ex droghe pesanti, ritenendo che rientrasse nell'apprezzamento discrezionale del legislatore una tale scelta normativa. Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte ha negato i presupposti dell'attenuante del fatto di "lieve entità" sull'assorbente rilevanza ostativa del quantitativo netto di principio attivo [198,63 dosi singole] e riteneva di dover confermare il giudice di equivalenza [sulla contestata recidiva reiterata e specifica] della già concesse circostanze attenuanti generiche, in ragione delle plurime condanne riportate dall'imputato, anche di natura specifica, della gravità di uno dei precedenti, relativo al reato di rapina, e della dimostrata "insensibilità" del prevenuto ai benefici di legge, per due volte già concessigli. Per l'effetto, la Corte ha anche ritenuto manifestamente irrilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa con riguardo alla disciplina del giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti in caso di contestazione della recidiva reiterata (articoli 69, comma 4, e 99, comma 4, c.p.).

Il F. articola una pluralità di doglianze, tutte in vero infondate.

Con un primo motivo, si duole del fatto che il giudicante per apprezzare il quantitativo del principio attivo della sostanza stupefacente aveva fatto richiamo al decreto del Ministro della salute dell'11 aprile 2006, pur essendo stato questo emanato dopo il fatto incriminato. Evoca l'applicabilità del principio della irretroattività della legge penale. La doglianza è infondata perché considera i parametri indiziari indicati nell'articolo 73, comma 1 bis, lettera a), del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, come se fossero degli elementi costitutivi del reato [qui, di detenzione illecita]. Invece, si tratta, semplicemente, di elementi sintomatici, che rilevano come criteri di valutazione ai fini della prova della detenzione per uso non esclusivamente personale (cfr. di recente Sezione IV, 17 dicembre 2007, Pagliaro). La portata del comma 1 bis, lettera a), dell'articolo 73 del DPR 9 ottobre 1990 n. 309, inserito a seguito delle modifiche introdotte nella disciplina sanzionatoria delle sostanze stupefacenti con il decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49, in vero, non immuta il sistema precedente quanto alla configurazione della detenzione per uso di terzi come "elemento costitutivo" del reato, limitandosi, appunto, ad indicare alcuni "elementi sintomatici" dai quali può trarsi la conclusione che la sostanza non era destinata ad uso esclusivamente personale: e tra questi, per quanto interessa, viene in considerazione anzitutto proprio quello quantitativo, sotto il profilo del superamento della soglia quantitativa di principio attivo indicata nel decreto del Ministro della salute (cfr. il citato decreto del Ministro della salute dell'11 aprile 2006).

Da tale parametro valutativo, quindi, legittimamente il giudice di merito ha tratto argomenti dimostrativi della destinazione illecita, senza che assumesse alcun rilievo il fatto che il decreto che ha previsto la soglia per le singole sostanze fosse stato emanato in data successiva ai fatti. Del tutto inconferente è quindi il richiamo all'articolo 2 c.p., che riguarda la fattispecie incriminatrice e gli elementi costitutivi della medesima, ma non certo gli elementi utilizzabili solo a fini di prova della sussistenza della medesima.

Con il secondo motivo, si sostiene l'inutilizzabilità di un elemento di prova [la segnalazione che avrebbe determinato la perquisizione e poi l'arresto del prevenuto]. Anche tale doglianza è inaccoglibile. Oltre a non apprezzarsi quale vulnus ne sarebbe determinato per la tenuta complessiva degli elementi a carico, il ricorrente dimentica di considerare che in una situazione del tipo di che trattasi, dove la prova principale è rappresentata dal sequestro della droga, vale il principio in forza del quale quando l'attività della polizia giudiziaria si conclude con il ritrovamento ed il sequestro del corpo del reato, l'ordinamento processuale considera irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti (cfr. Sezioni unite, 27 marzo 1996, Sala). Ancorché nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta, invero, un atto dovuto, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali, quali che siano state, in concreto, le modalità propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta. Con il terzo motivo si prospetta il vizio di motivazione dell'affermazione di responsabilità. In realtà la doglianza si risolve in una contestazione di merito, che non può trovare ingresso in questa sede a fronte di una sentenza che - nei termini di cui si è detto- ha sviluppato ed analizzato gli elementi indiziari, fornendo una dimostrazione assolutamente convincente della destinazione illecita della droga. Né potrebbe valere in senso contrario, per sostenere la pretesa illogicità, una divergente valutazione che il ricorrente vede tra la decisione di primo grado [che avrebbe fondato la prova della destinazione illecita non tanto sul quantitativo della droga, quanto sulle "altre circostanze dell'azione" prese in considerazione dall'articolo 73, comma 1 bis, lettera a)] e quella di appello, valorizzante, tra gli altri, proprio l'elemento quantitativo. Il ricorrente dimentica in proposito l'effetto integralmente devolutivo dell'appello e l'autonomia decisionale di tale giudice rispetto a quello di primo grado, pur quando ne venga confermata la sentenza. In tale evenienza, infatti, quando cioè si verta in ipotesi di una "doppia conforme", il giudice di appello ben può comunque motivare diversamente le proprie conclusioni, così come, diversamente, può semplicemente limitarsi a motivare per relationem agli argomenti del primo giudice, se e in quanto li condivida e li ritenga tali da reggere alle doglianze dell'appellante. Sul punto, il ricorrente lamenta anche una sorta di travisamento della prova, laddove - si sostiene- il giudicante di appello non avrebbe apprezzato che il prevenuto non aveva affatto ammessa l'intenzione di cedere la sostanza ad amici o di assumerla unitamente a questi, come sostenuto dalla Corte. Si evoca, quindi, una sorta di travisamento della prova, che si sarebbe sostanziato in un'erronea lettura delle dichiarazioni del prevenuto (sui limiti entro cui può farsi valere in sede di legittimità il travisamento della prova, v. di recente, Sezione IV, 12 febbraio 2008, Trivisonno, ai cui argomenti si rinvia). In realtà, la trascrizioni di tali dichiarazioni operata correttamente dal ricorrente nel corpo dell'impugnazione consente di escludere ab imis qualsivoglia travisamento qui censurabile. Evidentemente integra doglianza di merito l'ulteriore doglianza che - nel corpo del medesimo motivo- il prevenuto fa contestando l'apprezzamento sul reddito disponibile che è stato ritenuto incompatibile con la pretesa destinazione per uso personale. Certo non può pretendersi che la Corte provveda ad analizzare partitamene la composizione del reddito a disposizione del ricorrente, per sindacare, in fatto, l'apprezzamento del giudice di merito, che, in vero, appare corretto e non irragionevole. Sempre di merito, perché vorrebbe che si sindacasse l'apprezzamento operato sul contenuto della prova, è l'argomento censorio che riguarda il convincimento espresso dal giudicante in ordine alla "disponibilità" in capo al prevenuto del balcone ove era custodita la droga, e, quindi, alla detenzione di quest'ultima. Infondato è anche il quarto motivo, dove si ripropone la questione di legittimità costituzionale sulla "parificazione" delle sostanze stupefacenti perseguita a seguito del novum normativo introdotto con la legge n. 46 del 2006. Vale quanto ampiamente argomentato in sede di merito: la scelta del legislatore è discrezionale, né pare qualificarsi per una irragionevolezza intrinseca che imponga di sottoporla al vaglio del giudice delle leggi. Giova in effetti ricordare che con la riforma del 2006, con un notevole mutamento di prospettiva, scompare la differenziazione tra "droghe pesanti" e "droghe leggere", le quali, quindi, sono parificate sono il profilo sanzionatorio (cfr. i nuovi" articoli 13 e 14 del dpr n. 309/90). Tutte le sostanze vietate (che non trovano nessun impiego terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte) sono ricomprese in un'unica tabella (tabella I): nella stessa tabella, per intenderci, sono collocati indifferenziatamente l'oppio, le foglie di coca, la cannabis indica e le amfetamine.

L'assimilazione tra "droghe pesanti" e "droghe leggere" è stata motivata, nella relazione di accompagnamento al progetto di legge governativo, dall'esigenza di aderire alle "più recenti ed accreditate conclusioni della scienza tossicologica" secondo cui il principio attivo presente in alcune sostanze stupefacenti è "incomparabilmente" maggiore che in passato: ciò è stato apprezzato soprattutto con riguardo alla cannabis, rispetto alla quale, normalmente a motivo di diversificate modalità di coltivazione, il principio attivo (tetraidrocannabinolo o THC) è passato dallo 0,5/1,5 per cento che caratterizzava i derivati della cannabis negli anni 70/80 a valori attuali pari al 20/25 per cento, con punte anche superiori. Tale assimilazione è frutto di una scelta discrezionale del legislatore basata sull'adesione ad una determinata opinione scientifica, cui ovviamente può opporsi, in modo legittimo, l'opinione opposta basata sulla non assimilabilità delle sostanze sotto il profilo della gravità degli effetti che queste sono in grado di determinare. Ma tanto non basta per prospettare la dedotta irragionevolezza.

Con il quinto motivo ci si duole della mancata concessione dell'attenuante del fatto di lieve entità. In realtà, la decisione appare corretta e in linea con la migliore interpretazione giurisprudenziale. È pacifico, infatti, che, in tema di sostanze stupefacenti, ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, il giudice è tenuto a complessivamente valutare tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l'azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all'oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa): dovendo, conseguentemente, escludere la concedibilità dell'attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di "lieve entità". E in un tale contesto valutativo, ove la quantità di sostanza stupefacente si riveli considerevole, la circostanza è di per sé sintomo sicuro di una notevole potenzialità offensiva del fatto e di diffusibilità della condotta di spaccio (di recente, tra le tante, Sezione IV, 8 novembre 2007, Lo Schiavo). Il giudicante si è mosso in linea con quanto esposto valorizzando negativamente il quantitativo della sostanza stupefacente.

Nessun pregio ha l'argomento del ricorrente che il fatto di lieve entità doveva essere valutato in termini più liberali in ragione del fatto che si trattava di hashish. E' argomento esatto, ma non calzante. In proposito, è indubbiamente da considerare che il decreto dell'11 aprile 200 adottato dal Ministro della salute, nel fissare la "quantità massima detenibile" sostanza stupefacente (Q.M.D.), si è per alcune sostanze (le principali) fatto ricorso ad un "moltiplicatore variabile" della "dose media singola". Poiché proprio con il "moltiplicatore" si è attribuita una diversa valer "qualitativa" alle diverse sostanze stupefacenti (per quelle meno pericolose moltiplicatore è stato calcolato in termini più ampi), può utilizzarsi tale argomento per attribuire un rilievo (anche) alla "natura" della sostanza ai fini e per gli effetti dell'attenuante del fatto di lieve entità, superando così quell'orientamento, finora consolidato, in forza del quale per il parametro della "qualità" richiesto dal comma 5 dell'articolo 73 poteva attribuirsi spazio solo alla maggiore o minore "purezza" della sostanza stupefacente, restando invece indifferente la natura della stessa (cfr., ad esempio, Sezione IV, 20 giugno 1996, Miranda).

Cosicché, per i derivati della cannabis, cui si è riconosciuta una minore pericolosità, tanto da utilizzarsi il moltiplicatore "20", potrebbe riconoscersi un più ampio spazio per la concedibilità del "fatto di lieve entità". Ma tale rilievo vale purché, ovviamente, non risultino ostativi gli altri parametri indicati nel comma 5 dell'articolo 73. Ciò che qui si è ritenuto, valorizzandosi [negativamente] il quantitativo della droga. Infondato è anche il settimo motivo, con cui ci si duole del giudizio di bilanciamento delle circostanze {ergo, della concessione delle attenuanti generiche solo equivalenti rispetto alla contestata recidiva). Per assunto pacifico, infatti, il giudizio di comparazione fra circostanze attenuanti ed aggravanti ex articolo 69 c.p., è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (di recente, Sezione III, 8 maggio 2007, Alia). Qui il giudicante ha corroborato la propria determinazione con satisfattiva motivazione, puntualmente mirata a porre in evidente [per escludere l'ammissibilità di un più favorevole giudizio dì comparazione] i precedenti giudiziari plurimi, specifici ed anche gravi del prevenuto. Proprio in ragione di tale determinazione il giudicante ha ritenuto manifestamente irrilevante la questione di legittimità sollevata dalla difesa con riguardo alla disciplina del giudizio di comparazione delle circostanze attenuanti in caso di contestazione della recidiva reiterata (articoli 69, comma 4, e 99, comma 4, c.p.). E proprio tale assorbente ragione - che risiede sulla manifesta infondatezza del motivo di censura- che vale per escludere l'accoglibilità anche dell'ultimo motivo di ricorso, l'ottavo, con cui il prevenuto ripropone qui l'eccezione di costituzionalità. Solo per completezza, va qui ricordato che la disciplina de qua, già sottoposta all'attenzione dalla Corte costituzionale, è stata ritenuta pienamente legittima. Ed infatti, proprio alla luce degli spazi interpretativi offerti dalla sentenza della Corte costituzionale 14 giugno 2007 n. 192 [v. anche, tra le altre, le successive ordinanze 21 febbraio 2008 n. 33 e 4 aprile 2008 n. 90], si è ormai formato un apprezzabile orientamento interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, dove si patrocina un inquadramento di tutte le ipotesi di recidiva (tranne quella di cui al comma 5 dell'articolo 99 c.p.) come facoltative. Secondo tale prospettazione, in sostanza, quando il giudice ritiene di non applicare in concreto la recidiva [perché considera che il delitto commesso non sia espressione di una maggiore pericolosità del reo in ragione delle circostanze di cui all'articolo 133 del Cp: natura dei precedenti, tempo trascorso, natura del reato contestato, ecc.] non opera l'effetto preclusivo ex articolo 69, comma 4, del Cp (cfr. Cassazione, Sezione IV, 2 luglio 2007, Proc. gen. App. Cagliari in proc. Farris; più di recente, Sezione VI, 13 novembre 2007, Proc. gen. App. Genova in proc. Nar; Sezione IV, 13 febbraio 2008, Proc. gen. App. Brescia in proc. Mariki). Nella specie, peraltro, come detto, la questione neppure si pone, avendo il giudicante ritenuto impraticabile un giudizio di comparazione tra le circostanze più favorevole rispetto a quello di equivalenza.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali