Unione Degli Avvocati d'Italia

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Class Action italiana
martedì 25 marzo 2008 - Pubblicazione a cura di



www.judicium.it  
Mauro Bove
Una proposta per la “via italiana” alla class action

Nel campo della tutela dei consumatori la legge prevede un’azione, esercitabile da un ente rappresentativo, con la quale si fa valere un interesse collettivo al fine di richiedere una tutela essenzialmente inibitoria o, al più, ripristinatoria (articoli 37 e 140 del d.lgs. n. 206 del 2005: c.d. codice del consumo). Nel processo così instaurato l’ente non rappresenta i diritti dei singoli consumatori né può qualificarsi come legittimato straordinario rispetto a questi. In realtà in detto processo l’ente è portatore dell’interesse collettivo della categoria dei consumatori in quanto tale. Insomma qui non sono azionate le situazioni individuali, in ipotesi danneggiate dal comportamento plurioffensivo del professionista, bensì è azionato solo, appunto, quel certo interesse collettivo (a prescindere dal fatto che questo sia imputabile o meno all’ente, questione che forse non è poi centrale, restando quale unica cosa certa che detti enti sono legittimati all’azione dalla legge e che essi probabilmente non potrebbero agire in giudizio per l’interesse collettivo se la legge non lo prevedesse esplicitamente).

Il rimedio in questione non è utile per ottenere il risarcimento dei danni verificatisi in capo ai singoli consumatori. L’attore collettivo agisce in qualità di ente esponenziale di una categoria per ottenere un ordine che, almeno nel caso che sia richiesta una tutela inibitoria (caratterizzata dall’ordine di cessazione di un dato comportamento), svolge essenzialmente una funzione preventiva, ossia mira a prevenire possibili lesioni di posizioni individuali (lesioni che possono in parte già essersi verificate, ma che è possibile che non si siano ancora verificate).

Un rimedio costruito in tale modo comporta diversi problemi, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione dell’oggetto del giudicato e dei limiti soggettivi dell’efficacia della pronuncia. Le domande più comunemente poste sono due:

1) qual è l’effetto della pronuncia rispetto ad altri enti egualmente legittimati a far valere quello stesso interesse collettivo?

2) qual è l’effetto della decisione assunta in sede collettiva nell’ambito delle azioni individuali?
Senza voler qui approfondire dette questioni a me pare di poter dire brevemente quanto segue.

Per rispondere alla prima domanda, più che richiamarsi al principio dell’efficacia del giudicato secundum eventum litis, in realtà bisogna ragionare in termini d’interesse ad agire. Posto che l’efficacia di cosa giudicata può coinvolgere solo i soggetti che hanno preso parte al processo della sua formazione, la pronuncia di rigetto non impedisce l’esercizio di altra azione inibitoria di altro ente legittimato, mentre la pronuncia di accoglimento, avendo come contenuto l’ordine di cessazione del comportamento antigiuridico, sottrae ad ogni altro legittimato l’interesse a proporre una domanda col medesimo contenuto.

Rispetto, poi, al secondo quesito, se si afferma che oggetto dell’accertamento della sentenza collettiva è il fatto qualificato come antigiuridico ovvero la vessatorietà di una data clausola, probabilmente se ne può conseguire che ogni singolo consumatore possa avvantaggiarsi di quel determinato accertamento, rilevante nell’ambito della sulla azione risarcitoria, salvo in ogni caso lo spazio che si deve dare alla valutazione del caso concreto (così, ad esempio, una clausola può essere considerata abusiva in termini generali, ma poi non essere qualificabile come vessatoria nell’ambito di una singola trattativa). Invero (e qui, se non vado errato, sono in sintonia con quanto detto da Sergio Menchini), a me sembra che una possibilità di soluzione al problema debba partire dal rilievo che, se normalmente oggetto del processo civile è un diritto soggettivo, a volte, quando la legge lo prevede, il processo civile, pur continuando ad avere lo scopo di risolvere una lite individuando la norma concreta a cui le parti devono adeguarsi nel futuro, tuttavia non ha come oggetto del suo accertamento un diritto soggettivo. Nell’azione collettiva finora esaminata, se è azionato un interesse collettivo in funzione del quale si chiede la pronuncia di un ordine, inibitorio o di tipo ripristinatorio, indirizzato al professionista, l’oggetto dell’accertamento che ai sensi dell’art. 2909 c.c. fa stato è probabilmente, non l’impalpabile interesse collettivo, ma più concretamente la questione inerente all’antigiuridicità di un comportamento.

E’ questo l’accertamento di cui i singoli consumatori possono godere nell’ambito delle loro azioni individuali.

Del resto l’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato, ma non dice che necessariamente oggetto di detto accertamento debba essere un diritto soggettivo. E’ vero che nelle norme di riferimento non è specificato quale sia l’oggetto dell’accertamento, ma è anche vero che se esso fosse solo il c.d. interesse collettivo, evidentemente non vi sarebbe alcuna possibilità, per ragioni oggettive, d’immaginare un’efficacia di giudicato della sentenza “collettiva” nell’ambito delle azioni individuali. Quindi, in definitiva, mi sembra molto più ragionevole immaginare che qui l’oggetto dell’accertamento sia appunto una questione giuridica: quella questione giuridica che interessa una pluralità di diritti individuali dei consumatori.

Peraltro, se tutto questo è vero, si potrebbe discutere (ed in ciò mi discosto da quanto detto da Sergio Menchini) sulla possibilità di accertare con efficacia di giudicato la “questione comune” anche nell’ambito di un processo in cui si tratta del diritto individuale del singolo consumatore. Se è vero che detta questione non attiene ad una situazione giuridica soggettiva, è anche vero che l’art. 34 c.p.c. si riferisce ad ogni questione che potrebbe essere oggetto di autonomo processo. Ed, allora, se qui siamo di fronte ad una questione che può essere oggetto di autonomo processo, perché in riferimento ad essa non si potrebbe chiedere l’accertamento con forza di giudicato anche nell’ambito del processo sul diritto del singolo consumatore?

Si potrebbe obiettare che il singolo consumatore non sia legittimato a proporre una domanda incidentale con tale oggetto, avendo la legge legittimato a tale fine solo gli enti esponenziali. Ma si potrebbe anche sostenere che in realtà la legge ha conferito a detti enti una legittimazione esclusiva solo a chiedere la tutela inibitoria, senza con ciò escludere che la questione comune possa essere oggetto di accertamento incidentale nell’ambito di una causa individuale di tipo risarcitorio. Con l’unica aggiunta che, ovviamente, in un caso del genere il giudice dovrebbe valutare la potenziale plurioffensività dell’illecito prima di ammettere una simile domanda incidentale.

Mi rendo conto che trattasi di affermazioni fortemente discutibili. Ma non posso approfondire ulteriormente.

Fatti questi brevi cenni sugli strumenti esistenti, è certo che nel nostro ordinamento manca un mezzo processuale che consenta di azionare in un solo processo la pluralità dei diritti risarcitori spettanti ai singoli a fronte di un comportamento plurioffensivo del professionista, che danneggi appunto una pluralità indefinita di consumatori, sia a titolo di responsabilità contrattuale sia a titolo di responsabilità extracontrattuale. O meglio, posto che s’immagina la nascita di una pluralità indefinita di diritti risarcitori derivanti da un comportamento plurioffensivo del consumatore, diritti diversi ma connessi per comunanza di questione o al più per titolo (lontano, quindi, da ogni ipotesi di contitolarità di uno stesso diritto), non sembra che siano sufficienti al fine di immaginare un possibile simultaneo processo le previsioni di cui agli articoli 103, 105 e 40 c.p.c.

Nei casi a cui si pensa dette previsioni non sono sufficienti almeno per due ragioni:

1) perché i singoli danneggiati potrebbero non essere stimolati ad agire, sia pure insieme ad altri, non solo per debolezza economica rispetto al professionista, ma anche perché l’entità dei loro singoli danni potrebbe non essere tale da meritare l’impegno in proprio in attività processuali;

2) perché si rischierebbe di trovarsi di fronte ad un vero e proprio Mammut-Prozess[1], ossia un processo con centinaia o migliaia di parti, certamente difficile, se non impossibile, da gestire.

Da questa carenza nasce l’idea, peraltro non certo nuova neanche nel nostro paese, di approntare un mezzo processuale da utilizzare nell’ipotesi che una pluralità indefinita di consumatori sia stata danneggiata dall’attività di un professionista, un mezzo che si avvicini alla c.d. class action, convinti del fatto che i problemi di compatibilità sostanziale e processuale da molti denunciati (anche in questa sede da Sergio Menchini) siano superabili. Si tratta solo, pur ispirandosi a modelli stranieri (sia quello americano propriamente della class action sia altri, che da questo si allontanano per aderire all’idea di un processo-modello sulla questione comune a più diritti individuali), di trovare, magari allontanandosi dagli stessi modelli ispiratori, un punto di equilibrio tra esigenze sostanziali, esigenze di efficienza e possibilità date dai principi fondamentali, ovviamente anche e soprattutto costituzionali, del nostro processo civile.

Premetto che la bozza che ora brevemente illustrerò è stata ispirata anche da una proposta di legge francese che influenzò in una certa misura il nostro percorso, mio e dell’ottima dott.sa D’Alessandro, quando la scorsa estate ci capitò di doverci chiarire le idee sulle problematiche in oggetto, facendo un lavoro per alcuni parlamentari, che però, poi, non hanno mostrato alcun interesse reale per l’argomento.

Presupposto di partenza è il convincimento che non sia molto funzionale, ai fini della tutela risarcitoria, un meccanismo in cui un ente rappresentativo agisca per l’accertamento dell’illecito in ipotesi coinvolgente una categoria indefinita di consumatori, lasciando poi ad ogni singolo l’onere di esercitare la sua azione individuale. Insomma un sistema, come quello assunto nel ddl Bersani, in cui l’ente agisce senza essere rappresentante dei membri della classe e quindi senza che nel processo così instaurato siano veramente in gioco i diritti dei singoli. Questo sistema non mi sembra funzionale quantomeno per due motivi:

- perché con esso non si risolve il problema di economia processuale, in quanto in caso di accoglimento della domanda si ha semplicemente una sentenza che accerta un fatto potenzialmente dannoso e la sua imputabilità, dovendo poi lo Stato ed i singoli interessati impegnarsi in una serie indefinita di singoli processi;

- perché la pronuncia assunta ha gli ovvi limiti soggettivi che derivano dal principio del contraddittorio, per cui essa, se negativa per l’ente e positiva per il professionista, in realtà non ha alcun valore (altro ente può agire in giudizio, esercitando un’altra azione collettiva in riferimento alla stessa vicenda ed i singoli consumatori non sono certo vincolati a quella pronuncia nell’ambito delle azioni individuali, con la conseguenza che la vittoria del professionista in questo caso è completamente inutiliter data).

A mio parere è possibile e ragionevole costruire un mezzo efficace, quindi un mezzo che sia idoneo a mettere veramente in gioco i diritti risarcitori dei più nel processo di classe, pur avendo presente, come ha ricordato Sergio Menchini, che ogni diritto individuale ha aspetti peculiari da considerare. Insomma un mezzo che, lungi dal presentarsi come un’azione di mero accertamento del fatto o della questione comune ad un numero indefinito di liti, sia piuttosto un’azione di condanna che mette concretamente in gioco i diritti risarcitori dei membri di una data classe.

Partendo da questo convincimento di fondo, passo a tratteggiare i punti caratterizzanti della proposta che cerca di rispondere, nel rispetto dei principi fondamentali della domanda e del contraddittorio vigenti nel nostro diritto processuale civile, essenzialmente a tre domande:

1) chi può essere legittimato ad esercitare l’azione collettiva?
2) come si individua la classe?
3) quali sono i rapporti, anche in termini di poteri processuali, tra l’attore collettivo ed i singoli?
1) Individuazione dell’attore collettivo

Esclusa la possibilità di agire di un singolo consumatore si propone di legittimare all’azione collettiva, per un verso, le associazioni rappresentative dei consumatori di cui all’art. 137 del codice del consumo e, per altro verso, un gruppo di consumatori coinvolti nella vicenda dannosa e costituiti in associazione al fine appunto dell’esercizio dell’azione di classe, che offra sufficienti garanzie di serietà e di capacità di rappresentanza degli interessi in gioco.

In questa logica sta al giudice, nella fase preliminare del processo, valutare la credibilità del gruppo organizzato. Infatti l’azione collettiva deve essere ammessa nell’ambito di questa prima fase sommaria, nella quale, oltre a valutare la legittimazione dell’attore di classe, il giudice deve anche appurare che l’illecito imputato al convenuto appaia verosimilmente idoneo a coinvolgere un numero indefinito di consumatori.

In questo ambito il giudice ha uno spazio di valutazione molto ampio, sia in riferimento alla valutazione della “serietà” del gruppo organizzato (ove, invece, agisca un’associazione di consumatori, il giudice deve limitarsi a verificare se trattasi di associazione inserita nell’apposito elenco presso il Ministero delle attività produttive) sia in riferimento alla numerosità delle persone potenzialmente coinvolte. Ma rispetto al primo elemento di valutazione si auspicherebbe un atteggiamento poco rigido dei giudici, perché la vera valutazione è demandata al mercato (anche quando ad agire è un’associazione inserita nel detto elenco ministeriale), posto che l’azione collettiva finisce per naufragare nel caso in cui l’attore di classe non riceva le necessarie e sufficienti adesioni. Insomma è possibile che la sua iniziativa non abbia successo perché i consumatori non si sentono di dare ad essa fiducia!

Infine si ritiene opportuna la precisazione che una volta ammessa un’azione di classe non è possibile esercitare un’altra azione di classe per la medesima vicenda.

2) Individuazione della classe

Si propone di approntare un meccanismo di pre-definizione della classe, al fine di individuare i soggetti le cui posizioni individuali sono coinvolte nel processo di classe, i soggetti, quindi, a cui sarà opponibile il giudicato, a prescindere dal suo contenuto favorevole o sfavorevole per i consumatori.

Il meccanismo immaginato parte dal presupposto che nel nostro sistema si può assoggettare al giudicato solo colui che ha assunto la qualità di parte nel processo. Insomma non è possibile adottare un meccanismo d’individuazione della classe partendo dal principio per cui possono essere assoggettati agli effetti della decisione coloro che siano stati adeguatamente rappresentati a prescindere da ogni loro esplicita adesione, ma si deve partire dal principio per cui possono essere assoggettati al giudicato coloro che hanno scelto di aderire all’azione di classe.

In altri termini, i singoli si devono attivare per essere inseriti nell’azione di classe e non per esserne esclusi[2].

Di conseguenza l’individuazione della classe implica propriamente l’individuazione delle persone singole coinvolte. La classe qui non è una categoria indistinta, ma propriamente la somma di singoli individui che mettono in gioco le loro posizioni individuali.

Il meccanismo proposto è semplice.

Una volta che sia stata risolta definitivamente la questione dell’ammissione dell’azione di classe, l’attore collettivo deve, entro un termine fissato dal giudice, raccogliere le adesioni. A tal fine egli pubblicizza l’iniziativa giudiziaria attraverso ogni forma utile (posta, stampa, siti internet, radio e televisione). Devono in ogni caso essere resi noti:

a) il contenuto del ricorso introduttivo
b) il nome o la denominazione del convenuto e del suo difensore

c) l’avvertimento che l’adesione comporta l’assoggettamento all’efficacia della sentenza che sarà pronunciata nell’azione di classe, sia essa di accoglimento sia essa di rigetto

d) l’eventuale patto di quota-lite.

L’azione collettiva può essere proseguita solo se viene raccolto un numero minimo di adesioni (si è pensato almeno a dieci, ma potrebbe anche essere considerato un numero troppo piccolo). E, credo, non vi sia dubbio sul fatto che il successo dell’iniziativa dipenda anche dall’immagine che l’attore di classe propone di sé nonché dalla scelta del legale a cui ci si è affidati.

La prosecuzione del processo avviene, poi, mediante notifica di un atto di citazione alla controparte.

Ovviamente coloro che restano fuori dalla classe, perché non vi hanno aderito, possono agire individualmente senza alcun condizionamento in ipotesi derivante dalla pendenza e dall’esito del processo di classe.

3) Rapporti tra attore collettivo e membri della classe

I membri della classe sono parti del processo, quindi, per un verso, nel processo saranno accertati e liquidati i loro singoli diritti (e peraltro eventuali azioni individuali di costoro sono impedite o, se già esercitate, diventano improcedibili) e, per altro verso, essi sono soggetti al futuro giudicato, al quale possono sfuggire solo provando che la lite è stata decisa dall’attore collettivo con dolo o colpa grave.

Tuttavia i membri della classe non possono spendere poteri processuali (né sono chiamati a pagare le spese), ma hanno solo un diritto di controllo.

Tutti i poteri processuali sono in capo all’attore collettivo, il quale peraltro subisce delle limitazioni nell’esercizio della sua rappresentanza. In particolare egli:

- non può rinunciare agli atti del giudizio
- non può rendere confessione né deferire o riferire giuramento
- può giungere alla definizione della lite mediante conciliazione, ma questa deve essere valutata positivamente dal giudice.
Per ogni altro dettaglio rinvio alla proposta scritta che allego.
Grazie
 
Proposta di legge sull'azione collettiva
Art. 1 (Campo di applicazione)

1. La presente legge si applica nel caso in cui un professionista cagiona, nell’esercizio della sua attività, un danno diffuso, coinvolgente una serie indefinita di consumatori.

Art. 2 (Legittimazione ad agire)

1. Ove, a causa dell’attività di un professionista, sia cagionato un danno coinvolgente, potenzialmente, un numero indeterminato di consumatori, per la tutela di questi è possibile esercitare un’azione collettiva.

2. L’azione collettiva può essere esercitata da:

a) un’associazione rappresentativa a livello nazionale iscritta nell’elenco di cui all’art. 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206[3], ovvero

b) un gruppo di consumatori coinvolti nella vicenda dannosa, costituitisi in associazione al fine dell’esercizio dell’azione, che dia sufficienti garanzie di serietà e di capacità per la rappresentanza degli interessi in gioco.

Art. 3 (Competenza)

1. Per la domanda di cui al precedente articolo è competente il tribunale del luogo individuato ai sensi degli articoli 18, 19 e 20 del codice di procedura civile.

2. Il tribunale giudica in composizione collegiale.
Art. 4 (Introduzione della causa)

1. La causa è introdotta con ricorso che deve contenere, oltre agli elementi di cui all’art. 414 del codice di procedura civile, l’indicazione:

a) dei requisiti necessari per la legittimazione ad agire;
b) della potenziale plurioffensività del comportamento imputato al convenuto;
c) dell’intenzione di esercitare un’azione collettiva ai sensi e per gli effetti della presente legge.
2. Il ricorso è depositato nella cancelleria del giudice competente insieme con i documenti in esso indicati.

3. Il giudice istruttore, designato ad opera del presidente del tribunale, fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé, assegnando all’istante un termine per la notificazione del ricorso e del decreto. Tra la data della notificazione e l’udienza devono correre non meno di trenta giorni liberi.

Art. 5 (Ammissione dell’azione collettiva)

1. Il giudice istruttore, sentite le parti e svolta, se necessario, un’istruzione sommaria, ammette l’azione collettiva se accerta che:

a) l’associazione che agisce rientra tra quelle elencate nell’art. 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206 ovvero il gruppo di consumatori offre sufficienti garanzie di serietà e di capacità per la rappresentanza degli interessi in gioco;

b) l’illecito imputato al convenuto, ove esistente, appare verosimilmente idoneo a coinvolgere un numero indefinito di consumatori.

2. Il giudice istruttore decide con ordinanza avverso la quale è ammesso reclamo ai sensi dell’articolo 669-terdecies del codice di procedura civile.

3. A seguito del provvedimento definitivo di ammissione, è improcedibile ogni altra azione collettiva, esercitata avverso lo stesso convenuto e per lo stesso fatto illecito, che sia stata iniziata successivamente. La prevenzione è determinata dal deposito del ricorso introduttivo[4].

Art. 6 (Raccolta delle adesioni)

1. Nel caso di ammissione dell’azione, non reclamata ovvero disposta o confermata in sede di reclamo, il giudice che ha provveduto fissa un termine non inferiore a tre mesi e non superiore a sei mesi[5] entro il quale l’attore deve raccogliere le adesioni all’azione collettiva.

2. L’attore può, a tal fine, utilizzare ogni forma di pubblicità, non solo attraverso l’invio di posta, ma anche per mezzo di quotidiani, periodici, siti internet ovvero attraverso la radio o la televisione.

3. In ogni caso devono essere resi pubblici i seguenti elementi:
a) il contenuto del ricorso introduttivo;
b) il nome o la denominazione del convenuto e del suo difensore;

c) l’avvertimento che l’adesione comporta l’assoggettamento all’efficacia della sentenza che sarà pronunciata sull’azione collettiva, sia essa di accoglimento o di rigetto;

d) l’eventuale patto di cui all’articolo 10 della presente legge.

4. Le adesioni sono raccolte per iscritto e devono essere depositate presso la cancelleria del giudice, a cura dell’attore, entro il termine fissato dal giudice.

Art. 7 (Posizione processuale degli aderenti)
1. Gli aderenti sono soggetti alla sentenza pronunciata sull’azione collettiva.
2. Essi non possono esercitare poteri processuali. Tuttavia essi possono chiedere conto dell’andamento del giudizio all’attore.

3. Gli aderenti possono peraltro sottrarsi all’efficacia della sentenza provando che l’attore ha gestito la lite con dolo o colpa grave[6].

4. Gli aderenti non possono esercitare o proseguire azioni individuali relative all’illecito per il quale pende l’azione collettiva.

Art. 8 (Prosecuzione del giudizio)

1. Scaduto il termine per le adesioni, il giudice, se queste ammontano ad almeno dieci[7], fissa un termine perentorio entro il quale l’attore deve proseguire il giudizio notificando alla controparte un atto di citazione ai sensi degli articoli 163 e seguenti del codice di procedura civile.

2. L’attore non può rinunciare agli atti del giudizio[8]. Egli non può rendere confessione né deferire o riferire il giuramento.
3. Se non vi sono adesioni sufficienti, il giudice definisce il processo con ordinanza non impugnabile.
Art. 9 (Conclusione del giudizio)

1. Accertata la responsabilità del professionista, il giudice liquida i danni spettanti a ciascun aderente, in base alle loro posizioni individuali.

2. La somma complessiva è versata all’attore, il quale provvederà alla distribuzione ai singoli aderenti, secondo quanto stabilito dal giudice.

3. L’accertamento della responsabilità può avvenire anche ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura civile.

4. Il giudizio può essere definito mediante conciliazione giudiziale, che sia autorizzata dal giudice, previa valutazione della congruenza dei termini dell’accordo rispetto agli interessi in gioco[9].

Art. 10 (Spese ed onorari di difesa)

1. Spese ed onorari sono ripartiti ai sensi degli articoli 91 e seguenti del codice di procedura civile tra l’attore e il professionista.

2. E’ ammesso il patto con cui l’attore s’impegna a conferire al difensore una somma, aggiuntiva o esclusiva, da decurtare in una percentuale definita dall’ammontare dei danni liquidati.

3. il patto di cui al precedente comma non è valido se esso non è reso pubblico ai sensi dell’articolo 6 della presente legge.

[1] Espressione utilizzata a proposito della vicenda Deutsche Telecom, pendente presso il Tribunale di Francoforte, che ha coinvolto circa 17.000 investitori: cfr. CONSOLO, RIZZARDO, Due modi di mettere le azioni collettive alla prova: Inghilterra e Germania, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, 891 ss, in partic. 894.

[2] O, se si vuole, usando le parole di Rescigno (Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it. 2000, 2224 ss., in partic. 2227) la determinazione dell’efficacia del giudicato non può avvenire, come negli U.S.A., per una intera classe, ma per singoli soggetti.

[3] Trattasi del c.d. Codice del consumo

[4] Si potrebbe discutere sulla possibilità di esercitare altre azioni collettive la cui iniziativa provenga da diversi attore di classe. Ma secondo me è bene che vi sia una sola azione collettiva in riferimento ad una determinata vicenda. Se i singoli vogliono parteciparvi lo possono fare, altrimenti resteranno le normali azioni individuali per coloro che restano fuori dalla partita di gruppo. Resta inteso che, se viene negata l’ammissione dell’azione collettiva, è sempre possibile che si proponga altra azione collettiva da parte di altro soggetto. Inoltre a me sembra anche che, se l’azione collettiva ammessa dovesse chiudersi con un provvedimento che non decide nel merito la lite, altre azioni collettive dovrebbero essere ammissibili.

[5] E’ un termine troppo ristretto nel massimo? Si potrebbe anche dare totale discrezionalità al giudice, fissando solo un termine minimo.

[6] In tal caso s’immagina che il singolo aderente, nonostante appunto l’adesione all’azione collettiva, eserciti la sua azione individuale, perché egli ritiene che questa sia stata mal gestita. Bisogna riflettere sulla sufficienza di questa disposizione. Potrebbe essere utile prevedere anche un meccanismo di uscita dalla classe attraverso la revoca dell’adesione? E’ necessaria una seria ponderazione in ordine alla risposta perché, fra l’altro, ammettendo una revoca delle adesioni potrebbe finire per saltare del tutto l’azione collettiva nel momento in cui le adesioni mantenute dovessero ridursi ad un numero inferiore a dieci.

[7] Fissare una soglia minima di adesioni? Si potrebbe anche evitare, almeno quando ad agire è un gruppo di consumatori organizzato, posto che questo già implica un numero di soggetti coinvolti. Tuttavia, mi sembra che un’azione collettiva abbia veramente senso solo se c’è un numero minimo di aderenti. Anzi, semmai si potrebbe ritenere che il numero di dieci sia troppo piccolo. Residua una questione sulla quale riflettere: è opportuno prevedere possibili adesioni successive ed eventualmente, in caso di risposta positiva, fino a quando esse dovrebbero essere possibili? A me sembrerebbe più semplice dare risposta negativa (né, credo, che possa essere utilizzato in senso contrario l’argomento per cui in fondo è sempre possibile l’intervento nel processo civile, perché qui potrebbe trattarsi dell’intervento di molti o moltissimi consumatori). Tuttavia, se proprio si volesse dare risposta positiva, a me sembrerebbe ragionevole ammettere ulteriori adesioni al più entro l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.

[8] Qui si potrebbe pensare di far salvo il caso in cui vi sia il consenso di tutti gli aderenti.

[9] L’alternativa al controllo di congruenza del giudice potrebbe essere quella di richiedere il consenso di tutti gli aderenti. Ma francamente questa alternativa non sembra preferibile, perché essa potrebbe essere fonte di complicazioni. Piuttosto si potrebbe anche pensare ad un doppio canale, immaginando che la conciliazione giudiziale esiga l’autorizzazione del giudice solo se non vi è il consenso di tutti gli aderenti. Adottando un simile sistema si porrebbe la seguente alternativa: in presenza del consenso di tutti gli aderenti, il giudice ne dovrebbe solo prendere atto; in caso, invece, di mancata ricerca di quel consenso, allora sarebbe necessaria una valutazione da parte del giudice in ordine alla congruenza dei termini dell’accordo. Peraltro, in un sistema del genere residuerebbe il dubbio che il giudice possa autorizzare una conciliazione, magari oggettivamente molto buona nei suoi termini, ma alla quale, tuttavia, gli aderenti interpellati non abbiano dato (almeno in parte) il loro consenso. Queste complicazioni mi fanno propendere per il semplice sistema proposto nell’articolato.